Quando nel 1972 la Marvel Comics decise di aprire una filiale nel Regno Unito, la mossa aveva un obiettivo dichiarato ma, col senno di poi, perfino un sottotesto inequivocabile: penetrare un mercato che stava vivendo una propria stagione d’oro senza adattarsi più di tanto alle sue peculiarità, ma piuttosto imponendo una versione “localizzata” del modello americano. Il problema di fondo era già evidente fin dall’inizio: nel Regno Unito gli albetti monografici statunitensi, nel formato “comic book” e con cadenza mensile, non avevano mai sfondato. Il lettore britannico era abituato a prodotti economici, settimanali, a basso costo, in bianco e nero e con più storie nello stesso numero. Marvel UK nacque per riempire questo spazio… ma lo fece soprattutto riciclando materiale già prodotto oltreoceano.
Il successo iniziale consolidò la presenza della filiale nel panorama britannico: Marvel UK si era comprata una fetta di mercato importante. E qui che emerge la prima contraddizione strutturale: anziché sviluppare fin da subito una produzione originale che dialogasse con il contesto culturale locale, la strategia rimase vincolata alla funzione di “ristampe”, rinviando ogni reale investimento creativo. Nel corso degli anni ’70, la Marvel UK ampliò il proprio catalogo, arrivando persino a creare personaggi autoctoni. Nel 1976 vide la luce Captain Britain, ideato da Chris Claremont e disegnato da Herb Trimpe: il primo tentativo concreto di fondere la mitologia supereroistica americana con elementi britannici.
Eppure anche qui, la gestione editoriale ne minò il potenziale: la serie settimanale durò appena 39 numeri, prima di essere inglobata da Spider-Man Comics Weekly. Il settimanale dedicato all’Uomo Ragno, intanto, attraversava una girandola di cambi di testata – Super Spider-Man with the Super-Heroes, poi …and the Titans, poi …& Captain Britain – sintomo di una strategia poco coerente, più attenta a capitalizzare l’effetto-novità che a costruire un’identità solida. Eppure, grazie a una numerazione continuativa, la testata riuscì a entrare nel Guinness Marvel UK: 666 numeri settimanali dal 1973 al 1985, traguardo quantitativo impressionante che però non corrispose a un’evoluzione qualitativa.
Per oltre un decennio, Spider-Man in UK non ebbe storie inedite: era materiale americano degli anni ’60-’70, senza aggiungere nulla di nuovo alla mitologia del personaggio. Ma verso metà anni ’80 la situazione mutò. Il pubblico si polarizzò: i più giovani restavano affezionati al settimanale economico, i fan più adulti cominciavano a comprare gli originali americani, ormai facilmente reperibili nelle fumetterie specializzate. Il risultato fu una schizofrenia editoriale: da un lato si infantilizzò il settimanale, riempiendolo di giochi, rubriche e fumetti umoristici; dall’altro, si tentò un disperato rilancio creativo per riportare a bordo i fan più maturi, producendo – finalmente – storie originali “made in Britain”.
Il primo esempio arrivò nell’autunno 1984 con Spider-Man in Britain (Spider-Man Weekly nn. 607–610). La storia, con testi di Mike Collins e disegni di Barry Kitson, integrava il mito dell’Uomo Ragno in uno scenario britannico: pub, cabine rosse, nebbia e un nuovo eroe, Thunderclap. Ma se l’ambientazione risultava curiosa e pittoresca, il plot era già all’epoca giudicato derivativo: il villain cyborg Assassin-8 era una variante tecnologica poco ispirata, e l’eroe di supporto faticava a imporsi. Nel 1985 arrivò Web-Slinger Against Changeling, su Marvel Super Heroes Secret Wars n. 25 (UK). Una storia breve, meta-tv, con cameo di un vero programma britannico (The Wide Awake Club). L’operazione, pur simpatica, tradiva la mancanza di ambizione: un divertissement episodico più che una reale integrazione..
Il dato critico è evidente: queste prove arrivarono troppo tardi, quando ormai la crisi di vendite era irreversibile e la struttura Marvel UK si avviava alla contrazione. La produzione Marvel UK differiva da quella americana: periodicità settimanale, che spezzettava episodi di 20-22 pagine in segmenti da 8-11, diluendo la tensione narrativa; formato più grande, con adattamenti grafici spesso invasivi; prevalente bianco e nero, con poche pagine a colori; natura antologica, che frammentava l’attenzione del lettore; adattamento linguistico, con “britishizzazione” di termini e taglio sempre semplificato negli ultimi anni. In altre parole, Spider-Man UK era un prodotto ibrido, nato per assecondare abitudini editoriali locali, ma subordinato alla pipeline americana. Questo compromesso impedì la crescita creativa.
Oggi, dopo decenni, l’esperienza Marvel UK con Spider-Man è vista in due modi opposti: da un lato, come un’operazione che ha svolto una funzione distributiva, portando i supereroi Marvel a un pubblico nuovo ma senza innovare in modo sostanziale; dall’altro, come una palestra che ha formato autori destinati a diventare protagonisti della “British Invasion” negli Stati Uniti. Eppure, parlando di Spider-Man, il bilancio è severo: il personaggio non ha mai trovato in UK una vera identità autonoma, e le rare storie originali sono ricordate più per la curiosità collezionistica che per un valore artistico. Il potenziale di un “Peter Parker britannico” rimase inespresso. Marvel UK preferì giocare sul sicuro, campando di ristampe.
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