Nel 1941, in un’America che respirava ormai a pieni polmoni l’aria della guerra anche se ancora neutrale, la Timely Publications dell'ebreo Martin Goodman stava attraversando la fase decisiva della propria trasformazione: da semplice costola dell’impero pulp del suo fondatore a struttura editoriale vera e propria, solida, ramificata, capace di competere con i grandi nomi del fumetto statunitense. Fino a quel momento, il nome "Marvel" non aveva il peso mitologico che avrebbe acquisito dopo. Ma già si andava delineando, testata dopo testata, matita dopo matita, una grammatica narrativa che avrebbe segnato generazioni di lettori. Il 1941, in questo senso, non fu solo un anno di pubblicazioni: fu un momento di chiarimento interno, in cui la Timely capì chi era, cosa poteva fare e in che direzione andare.
La testata più rappresentativa di questa prima fase fu senz’altro Marvel Mystery Comics, una vera e propria spina dorsale per la Timely. Nata due anni prima come Marvel Comics, era un’antologia a episodi, dove trovavano spazio personaggi oggi leggendari come la Torcia Umana, Namor il Sub-Mariner, Angel e altri comprimari. A rileggerla, la struttura appare frammentaria, episodica, ma è innegabile che quell’albo riuscisse a trasmettere un senso di “universo condiviso” ante litteram. C’era una coerenza sotterranea, anche se rudimentale, che legava le varie storie, e che cominciava a suggerire al lettore che tutti quei personaggi abitavano lo stesso mondo. Le vendite erano altissime: il primo numero sfiorò le 800.000 copie. Un’enormità, segno che il pubblico c’era, e voleva proprio questo.
A fianco di Marvel Mystery Comics, Timely tentava altre strade, con varie fortune. Daring Mystery Comics, ad esempio, era pensata come una testata “vetrina” per eroi nuovi, ma si rivelò troppo discontinua. La maggior parte dei personaggi apparsi come Fiery Mask, Blue Diamond, Silver Scorpion, non sopravvissero più di qualche numero. La testata cambiava tono e contenuti con ogni uscita, e fu chiusa dopo appena otto numeri. Tuttavia, resta importante perché segnala l’ansia sperimentale della Timely: si stava cercando un’identità, non solo un successo commerciale.
Discorso molto diverso per Sub-Mariner Comics, il primo vero spin-off di successo della casa editrice. Il principe dei mari, Namor, aveva un carisma indiscutibile. Era un personaggio anomalo, più vicino all’antieroe moderno che all’idealismo manicheo dell’epoca. Le sue origini di mutante anfibio, la sua natura violenta, il suo disprezzo per l’umanità inquinatrice, lo rendevano inquietante e affascinante. Martin Goodman ne era affascinato. La testata a lui dedicata, con una struttura che alternava più episodi e inserti in prosa (scritti spesso da un giovanissimo Stan Lee), mantenne una buona longevità. Il suo valore non è solamente narrativo, ma anche strategico: fu la prima volta che si affidava un intero albo a un eroe.
E poi arrivò lui, Captain America. La vera svolta. L’albo intitolato Captain America Comics, uscito nelle edicole nel dicembre 1940 con data di copertina marzo 1941, fu un’esplosione. La famosa immagine di Cap che prende a pugni Hitler prima ancora che gli Stati Uniti entrassero ufficialmente in guerra fu un gesto ardito, quasi provocatorio. Joe Simon e Jack Kirby, i creatori, non avevano le mezze misure: volevano un eroe esplicitamente politico, simbolo del bene assoluto contro il male assoluto. Le vendite furono straordinarie, quasi un milione di copie, e la Timely da quel momento cominciò a essere davvero presa sul serio. Era nata una stella. O meglio, uno scudo.
L’impronta patriottica divenne centrale. Delle testate come USA Comics, uscite poco prima dell’attacco a Pearl Harbor, si specializzarono in eroi fortemente legati al tema della difesa della patria. Non erano più solo superpoteri e costumi sgargianti: ora i fumetti della Timely parlavano esplicitamente di guerra, di spie dell’Asse, di sabotate fabbriche americane. Personaggi come Whizzer, Defender, Jack Frost combattevano battaglie che ricalcavano in forma allegorica la geopolitica del tempo. La qualità narrativa oscillava — come spesso accade quando si scrive sull’onda dell’emergenza — ma l’intento era chiaro: essere presenti, dire qualcosa, contribuire all’immaginario nazionale.
Un altro tentativo fu All Winners Comics, serie antologica con le punte di diamante della Timely: Capitan America, la Torcia Umana, Namor. Si trattava di una “grande vetrina” in cui i protagonisti principali venivano esibiti fianco a fianco, ognuno con il suo episodio. Una strategia che anticipava, pur senza una vera narrazione condivisa, la logica delle future super-squadre. Non a caso, il numero 19 con la storia di 43 pagine che li vedeva combattere insieme può essere ritenuto l’archetipo di quello che, 20 anni dopo, saranno gli Avengers.
La Timely sperimentava la formula delle kid gang con Young Allies Comics. Qui, i giovani sidekick Bucky e Toro guidavano una banda di ragazzi patrioti in avventure belliche leggere nei toni ma cariche di retorica. Il fumetto, oggi, può apparire ingenuo e caricaturale — soprattutto nel modo in cui rappresenta l’etnia o i nemici — ma fu un fenomeno popolare all’epoca, utile anche per testare giovani autori. Stan Lee, poco più che ventenne, scrisse i testi di diversi numeri. Non era ancora “The Man”, ma il suo stile cominciava ad emergere.
Mystic Comics era invece un contenitore dai toni più esoterici e variabili, che fungeva da “incubatrice” per nuovi personaggi e suggestioni. Qui vi furono eroi oggi semi-dimenticati, ma di grande fascino concettuale: Blazing Skull, precursore di Ghost Rider; Thin Man, una sorta di Mister Fantastic; la prima Black Widow (Claire Voyant, una medium vendicatrice) e Destroyer, primo personaggio sceneggiato da Stan Lee. Mystic Comics non aveva una struttura solida, ma rappresentava il volto più che sperimentale — e forse più fragile — della Timely. Un luogo di prove, di intuizioni grezze, di semi lanciati in un terreno non sempre fertile, ma importante proprio per il suo carattere erratico.
Il 1941, a conti fatti, fu l’anno in cui la Timely non solo seppe “seguire il vento”, ma iniziò a orientarlo. Gli albi pubblicati in quei dodici mesi raccontano non solo la storia di una casa editrice in ascesa, ma anche di un’industria culturale in piena trasformazione. Supereroi, propaganda, narrativa popolare e sperimentazione grafica si mescolavano in modo grezzo ma vitale, come in una gran sala dove ogni tavola, ogni balloon, ogni copertina incendiaria serviva a forgiare un linguaggio nuovo. Guardando indietro, è facile considerare questi albi come “antichi”, superati, ingenui. Ma il loro valore non sta nella nostalgia o nella filologia da collezionista. Sta nel fatto che, dentro quelle pagine stampate su carta economica, c’era già l’embrione di qualcosa di enorme come sarebbe stato.
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