In Punisher: Red Band #2, scritto da Benjamin Percy e disegnato da Julius Ohta, la figura del Kingpin si conferma come uno dei centri nevralgici dell’universo criminale Marvel. La serie riporta in scena Frank Castle, ma con un elemento di distorsione: l’ex giustiziere sembra agire sotto il controllo diretto di Wilson Fisk, che lo indirizza verso obiettivi “buoni”. Il paradosso è evidente: l’uomo che ha sempre incarnato la corruzione ora si serve del Punisher come strumento di redenzione, o almeno così sembra.
La chiave del controllo esercitato da Kingpin su Castle si lega al ritorno di David “Microchip” Lieberman, vecchio alleato e poi traditore del Punisher. Micro, più volte ucciso e risorto nel corso della storia editoriale, torna adesso come intermediario e forse come inganno. La presenza riapre il tema della fiducia tradita e della dipendenza dal potere tecnologico, con la relazione tra i tre personaggi in un triangolo di menzogna, debito e colpa.
L’impianto visivo di J. Ohta contribuisce a questa atmosfera di controllo e oppressione. Le tavole alternano ombre taglienti e spazi soffocanti, come se il mondo del Punisher fosse diventato una gabbia creata da altri. Il tono noir così resta dominante, ma Percy inserisce sottotraccia una riflessione sulla manipolazione dell’identità: quando un giustiziere agisce per un criminale, chi resta al comando? La risposta attanaglia ora tutti i lettori.
Dal punto di vista critico, Punisher: Red Band si colloca in una fase interessante della narrativa Marvel, dove la linea tra eroe e carnefice si assottiglia. La scelta di rinascere il Punisher come pedina di Kingpin ribalta la mitologia del personaggio, perciò privandolo del libero arbitrio e costringendo il fan a interrogarsi sul senso stesso della giustizia personale. È una mossa rischiosa, ma anche necessaria, in un contesto editoriale che sembra voler ridare spessore etico ai suoi antieroi.
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